Taxi driver
È un film iconico, amato, premiato e studiato. È un film che nel 1976 ha scandalizzato e che oggi è considerato un classico. È il film che ha consacrato Martin Scorsese e ha esibito la recitazione di Robert De Niro. È Taxi Driver.
Travis Bickle è un insonne reduce del Vietnam che trova lavoro come tassista notturno.
La società, da dietro il suo finestrino, gli si rivela fasulla e sporca, sempre più nitidamente. Il crescere in lui di un senso di nausea per ciò che lo circonda non fa che acuire l’alienazione e la solitudine di cui è terribilmente affetto. Il suo dialogo interiore ci accompagna alla repentina degenerazione della sua psiche, alla disperata ricerca di uno scopo nella vita.
La regia di riflessi e luci, cromatismi e isolamenti, dipinge la scena insieme alle magnetiche musiche di Bernard Herrmann, storico collaboratore di Alfred Hitchcock.
In modo emblematico, nel finale, Travis viene esaltato dalla società stessa che, paradossalmente e lucidamente, da pazzo omicida lo rende coraggioso eroe.
È affascinante osservare come Taxi driver, che sembra un film apprezzabile da una nicchia, sia diventato invece un film estremamente popolare. Perché? Forse per la sua anima, forse frainteso, forse per l’apparente figura di anti-eroe di un uomo in realtà perduto.