Fight club
Fight club è senz’altro uno dei film più popolari di un’intera generazione, un’opera che nel 1999 chiude un millennio, come un testamento violento e sadico dei tempi che sono.
Perché il film non è solo un’opera mirabile per come gioca con la mente, sia con la psicologia dei personaggi, sia con la nostra capacità deduttiva, senza voler svelare nulla a chi non avesse ancora visto questo classico. Ma Fight club è anche e soprattutto una cinica critica alla società, al consumismo e alla dipendenza dai beni materiali, che sostituiscono i veri valori.
Al centro del film è evidente una profonda dualità, quella che incontra e scontra Jack e Tyler.
Jack è l’uomo comune, un onesto lavoratore, sottomesso al proprio posto di lavoro e influenzato dalla televisione. Tyler invece rifiuta ogni convenzione, evitando gli agi e ribellandosi alla società. Jack, logorato da una vita monotona e routinaria, senza uno scopo per cui vivere, trova conforto nei centri di aiuto per malati, anche terminali. Come se volesse consolare il suo mal de vivre, stando vicino a chi soffre più lui. C’è chi sta peggio no? Cosa mi lamento a fare? I centri verranno poi sostituiti dal Fight club, dove lo sfogo nervoso e il dolore fisico intorpidiscono quello mentale.
Ma il Fight club diventa una sottospecie di organizzazione criminale, in cui sempre più uomini si conformano, bisognosi di regole e comandi da eseguire, mostrando come l’uomo sia incapace di non dipendere da qualcosa.
Il film è in fondo una denuncia fortissima, un grido d’allarme che dice: se continuiamo così, arriveremo alla pazzia.
L’alienazione e il senso della vita sono i temi che riflettono le luci di una fotografia perennemente scura, sporca. Le interpretazioni di Brad Pitt, Edward Norton ed Helena Bonham Carter rendono il film un lucido ritratto postmoderno.