Un americano a Parigi recensione
1951,  Ballare,  Cantare,  Innamorarsi

Un americano a Parigi

Quando si recensisce Un americano a Parigi di Vicente Minnelli, si parla di uno dei più celebri musical della storia del cinema. Inserito nel 1998 dall’AFI tra i migliori film statunitensi di tutti i tempi, ottenne un grande successo sia di pubblico che di critica anche all’uscita, vincendo peraltro ben 6 premi Oscar.

Ispirato dal poema sinfonico di George Gershwin, di cui riprende il titolo, Un americano a Parigi ha avuto una produzione complicata, soprattutto a causa dei problemi personali del regista, che stava divorziando da Judy Garland, tanto che a tratti il protagonista Gene Kelly dovette sostituirlo alla regia.

A distanza di oltre 70 anni, si tratta di un film che visivamente è ancora in grado di stupire. Scenografie, costumi, fotografia, coreografia e in particolare l’uso del colore in ogni scena sono in grado di catturare e ammaliare l’occhio dello spettatore ancora oggi, con pochi eguali. Di scene da ricordare ce ne sono molte, ma ricordiamo le sequenze che citano e omaggiano i pittori impressionisti e Toulouse-Lautrec, giusto per ribadire la dimensione artistica della messa in scena.

È invece la storia la componente più debole di tutto il film. Fondata sul canovaccio in cui lui è debitore di una mecenate, ma ama una lei già impegnata (peraltro con un amico), fa sostanzialmente da base alle canzoni e ai numeri di ballo, con un ritmo decisamente diverso da quello a cui cinematograficamente siamo abituati oggi.

Solo un anno dopo Gene Kelly sarà protagonista di un altro celebre musical, Cantando sotto la pioggia, che narrativamente si discosterà da Un americano a Parigi per un maggiore umorismo, canzoni più vivaci e una sceneggiatura ancora oggi di grande livello.